Regime detentivo speciale

In materia di reclamo circa l’applicazione della proroga del regime detentivo speciale, di cui all’art. 41-bis ord. penit., – rispetto al quale la difesa del detenuto lamenta illegittimità costituzionale della norma in narrativa nella parte in cui assegna al Ministro della giustizia e non all’autorità giudiziaria la competenza a disporre l’applicazione o la proroga del suddetto regime detentivo –, i giudici di legittimità ribadiscono il principio secondo cui «la questione, già sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale, è stata ritenuta manifestamente infondata, posto che l’applicazione o la proroga del regime detentivo speciale non sono misure assimilabili alle misure di prevenzione personali e che vengono adottate o prorogate - con provvedimento autonomamente e congruamente motivato, reclamabile davanti all’autorità giudiziaria - all’esito di un procedimento camerale partecipato». Peraltro, non sussiste nemmeno, «anche secondo la giurisprudenza consolidata della Corte EDU, alcuna incompatibilità strutturale tra l’adozione di un regime carcerario differenziato (dettato dalla necessità di neutralizzare l’allarme sociale derivante dal mantenimento da parte del detenuto di relazioni con l’esterno del carcere) e i contenuti della citata norma convenzionale, attesa la natura temporanea della misura, l’esistenza per il detenuto di spazi minimi e incomprimibili di relazionalità e il controllo giurisdizionale sulle ragioni giustificatrici del provvedimento originario e delle eventuali sue proroghe e sulla tipologia delle limitazioni imposte». Infine, si puntualizza altresì, che avverso il provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza in sede di reclamo, circa l’applicazione o la proroga del regime differenziato in discussione, «è ammesso ricorso per cassazione in rapporto alla sola violazione di legge, con il limite, per questa Corte, di rilevare l’assoluta carenza di motivazione, intesa come mancanza grafica della stessa o come redazione di un testo del tutto sfornito dei requisiti minimi di logicità e aderenza ai dati cognitivi acquisiti, tale da rendere incomprensibile il percorso giustificativo della decisione, non riscontrato nella specie». Per tali motivi, il ricorso è inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende (Corte di Cassazione, VII Sez. Pen., Ord. 15017/2024).

Rimedi risarcitori

In materia di rimedi risarcitori nei casi di detenzione ritenuta contraria al senso di umanità, il sistema di tutela in favore dei detenuti è stato rafforzato concretizzandosi in due azioni autonome e complementari, disciplinate rispettivamente dagli artt. 35-bis e 35-ter Ord. Penit., che consentono al detenuto, appunto, di essere sottratto in modo tempestivo ad una condizione detentiva contraria al senso di umanità. La caratteristica dell’art. 35-ter Ord. Penit., infatti, consiste proprio nell’aver introdotto rimedi di tipo compensativo/risarcitorio con estensione dei poteri di verifica e di intervento da parte del magistrato di sorveglianza, allo scopo di rafforzare gli strumenti tesi alla riaffermazione della «legalità della detenzione». Si tratta, quindi, di «misure che rappresentano un quid pluris rispetto al previgente sistema di tutela, essenzialmente incentrato sul potere del magistrato di sorveglianza di inibire la prosecuzione dell’attività contra legem, in ottemperanza al monito derivante dalla Corte EDU di introdurre ricorsi tali che le violazioni dei diritti tratti dalla Convenzione possano essere riparate in maniera realmente effettiva». Ebbene, nel caso in esame, non viola l’art. 3 della convenzione EDU, in termini di fattori degradanti la detenzione, la presenza di un bagno alla turca all’interno di una cella singola, «essendo l’uso di tale servizio non promiscuo e separato dal resto della cella con una porta», per cui tale circostanza non costituisce «elemento di intollerabile afflittività», né integra una «lesione del diritto alla riservatezza, così come quello alla salubrità dell’ambiente, il cui corretto mantenimento non era compromesso da fattori esterni» (Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, Sentenza 9672/2024).