Revoca della misura alternativa

Con riferimento al procedimento innanzi il Tribunale di sorveglianza, i giudici di legittimità hanno ribadito il principio secondo cui «la nomina del difensore di fiducia effettuata nel procedimento di sorveglianza all’atto della richiesta di affidamento in prova al servizio sociale non spiega effetti nel procedimento per la revoca della misura stessa»; perciò, la nomina del difensore avvenuta solo dopo la notifica del decreto di fissazione dell’udienza dove poi si è discussa la revoca della misura alternativa alla detenzione (nel caso in esame del beneficio dell’affidamento terapeutico), e dove, peraltro, il condannato non ha nemmeno sollevato alcuna eccezione, non può essere ricondotta al principio di inosservanza dell’art. 178 cod. proc. pen., comma 1, lett. c) [È sempre prescritta a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti (...) l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante], dunque di nullità dell’atto stesso a causa, appunto, della mancata notificazione al difensore della fissazione di detta udienza. Inoltre, in punto di fatto oggetto di revoca, il Tribunale di sorveglianza nel revocare la misura alternativa con effetti ex tunc, cioè fin dall’inizio dell’esecuzione della misura, ha fatto correttamente leva sulla circostanza che da subito il condannato aveva tenuto «comportamenti oppositivi, contestando l’importanza degli strumenti terapeutici posti in essere nella comunità, sino a rifiutare del tutto di partecipare ai gruppi terapeutici, e creando tensioni tra gli ospiti con finalità strumentali ad un cambio di comunità», così dimostrando, con detto atteggiamento, che il beneficio è stato da lui stesso considerato «esclusivamente come una opportunità per evitare la detenzione in carcere ed è tale da determinare la revoca della misura alternativa con effetti ex tunc». Per tali motivi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma alla Cassa delle ammende determinabile in tremila euro (Corte di Cassazione, VII Sez. Pen., Ord. 15696/2024).

Regime detentivo speciale

In materia di reclamo circa l’applicazione della proroga del regime detentivo speciale, di cui all’art. 41-bis ord. penit., – rispetto al quale la difesa del detenuto lamenta illegittimità costituzionale della norma in narrativa nella parte in cui assegna al Ministro della giustizia e non all’autorità giudiziaria la competenza a disporre l’applicazione o la proroga del suddetto regime detentivo –, i giudici di legittimità ribadiscono il principio secondo cui «la questione, già sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale, è stata ritenuta manifestamente infondata, posto che l’applicazione o la proroga del regime detentivo speciale non sono misure assimilabili alle misure di prevenzione personali e che vengono adottate o prorogate - con provvedimento autonomamente e congruamente motivato, reclamabile davanti all’autorità giudiziaria - all’esito di un procedimento camerale partecipato». Peraltro, non sussiste nemmeno, «anche secondo la giurisprudenza consolidata della Corte EDU, alcuna incompatibilità strutturale tra l’adozione di un regime carcerario differenziato (dettato dalla necessità di neutralizzare l’allarme sociale derivante dal mantenimento da parte del detenuto di relazioni con l’esterno del carcere) e i contenuti della citata norma convenzionale, attesa la natura temporanea della misura, l’esistenza per il detenuto di spazi minimi e incomprimibili di relazionalità e il controllo giurisdizionale sulle ragioni giustificatrici del provvedimento originario e delle eventuali sue proroghe e sulla tipologia delle limitazioni imposte». Infine, si puntualizza altresì, che avverso il provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza in sede di reclamo, circa l’applicazione o la proroga del regime differenziato in discussione, «è ammesso ricorso per cassazione in rapporto alla sola violazione di legge, con il limite, per questa Corte, di rilevare l’assoluta carenza di motivazione, intesa come mancanza grafica della stessa o come redazione di un testo del tutto sfornito dei requisiti minimi di logicità e aderenza ai dati cognitivi acquisiti, tale da rendere incomprensibile il percorso giustificativo della decisione, non riscontrato nella specie». Per tali motivi, il ricorso è inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende (Corte di Cassazione, VII Sez. Pen., Ord. 15017/2024).