Misure di prevenzione

In materia di misure di prevenzione e pericolosità sociale, i giudici delle leggi hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 comma 2-ter (Decorrenza e cessazione della sorveglianza speciale) del Decreto Legislativo 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) – con riguardo allo “stato di detenzione” –, limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni». In estrema sintesi, per quanto qui interessa mettere in evidenza, dopo la cessazione dello stato di detenzione il tribunale è sempre tenuto a verificare, quindi anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale del soggetto interessato, sicché, fino a «tale rivalutazione, la misura di prevenzione in precedenza disposta dovrà considerarsi ancora sospesa, e le prescrizioni con essa imposte non potranno avere effetto nei confronti dell’interessato». Tuttavia, il tribunale può sempre «procedere alla rivalutazione della pericolosità dell’interessato in un momento immediatamente antecedente la scarcerazione del destinatario della misura di sicurezza, ovvero di omettere la rivalutazione quando la misura sia stata adottata per la prima volta nell’imminenza di tale scarcerazione, tenendo conto dell’evoluzione della personalità dell’interessato durante l’esecuzione della pena». Inoltre, la Consulta, concentrando l’attenzione anche sul principio della finalità rieducativa della pena (art. 27 co.3 Cost.), ha sottolineato che se «il successo di un trattamento rieducativo non è mai scontato», ecco che «la presunzione legislativa in esame muove (...) dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario in ipotesi protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l’attitudine antisociale di chi vi è sottoposto». Tant’è, «se ritenuto corretto, un simile presupposto varrebbe a determinare di per sé l’incompatibilità con l’art. 27, terzo comma, Cost. di tutte le pene detentive di breve durata». Sicché, «pur nella consapevolezza dei molti ostacoli di ordine fattuale che si frappongono alla realizzazione dell’obiettivo costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost., l’ordinamento non può invece che muovere dalla premessa della idoneità anche delle pene detentive di durata non superiore ai due anni a svolgere una funzione rieducativa nei confronti del condannato. Il che impone, per ovvie ragioni di coerenza rispetto a quella premessa, di lasciare aperta la porta a una verifica caso per caso se questo risultato sia stato raggiunto, o se invece persista, nonostante l’avvenuta espiazione della pena, una situazione di pericolosità sociale dell’interessato, che deve ancora essere contrastata mediante l’effettiva esecuzione della misura precedentemente disposta» (Corte Costituzionale, Sent. 162/2024).

Misure in materia penitenziaria

Con l’art. 10-bis del Decreto Legge 4 luglio 2024, n. 92 (Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia), convertito con modificazioni dalla Legge 8 agosto 2024, n. 112, si è introdotto il nuovo comma 2-bis all’interno dell’art.47 della Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’Ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che di fatto amplia la possibilità per il condannato di accedere all’affidamento in prova ai servizi sociali, appunto quale misura alternativa alla detenzione ordinaria o della semilibertà sostitutiva o della detenzione domiciliare sostitutiva, in funzione di quel percorso e principio rieducativo della pena basato sul graduale reinserimento sociale del condannato stesso, così come stabilito nella seconda parte del terzo comma dell’art. 27 della Costituzione. Sicché, il legislatore, con la novella richiamata qui in introduzione – ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni in materia di ordinamento penitenziario per una razionalizzazione di alcuni benefici applicabili ai detenuti per la semplificazione dell’accesso agli stessi, nonché alla straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni per l’efficienza del procedimento penale, tentando così di ridurre il cosiddetto problema del sovraffollamento carcerario –, ha statuito che “il condannato, qualora non sia in grado di offrire valide occasioni di reinserimento esterno tramite attività di lavoro, autonomo o dipendente, può essere ammesso, in sostituzione, a un idoneo servizio di volontariato oppure ad attività di pubblica utilità, senza remunerazione (…), in quanto compatibili, nell’ambito di piani di attività predisposti entro il 31 gennaio di ogni anno, di concerto tra gli enti interessati, le direzioni penitenziarie e gli uffici per l’esecuzione penale esterna e comunicati al presidente del Tribunale di sorveglianza territorialmente competente”. Brevemente, il reperimento di un’attività lavorativa da parte dell’interessato finalizzata a richiedere la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, non è necessariamente un requisito tassativo. Del resto, anche la costante giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni ha ribadito il principio che in tema di misure alternative alla detenzione deve ritenersi che la presenza di un’attività lavorativa certamente costituisce un mezzo di reinserimento sociale, ma tale circostanza, da sola e se mancante, non costituisce comunque condizione ostativa alla concessione della misura sostitutiva, «tale carenza, infatti, può eventualmente essere surrogata dallo svolgimento di attività socialmente utili, anche di tipo volontaristico» (cfr. Cass. Pen., giugno-settembre 2023).

Dipingere in cella

Avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza - che accolse il reclamo proposto da un detenuto ristretto in regime differenziato, ex art. 41 bis Ord. Penit., consentendo allo stesso di «poter svolgere attività di pittura all’interno della propria stanza di pernottamento, con le stesse modalità consentite all’interno della saletta di pittura» -, ricorreva il Ministero della Giustizia adducendo i seguenti due motivi: come primo motivo si «deduce erronea applicazione di legge. Secondo la parte pubblica ricorrente non vi è, alla base della pretesa del detenuto, una condizione di diritto soggettivo cui sarebbe arrecato un grave pregiudizio. Si tratta di una mera modalità organizzativa della attività trattamentale, rimessa alla discrezionalità della Amministrazione»; come secondo motivo si «deduce erronea applicazione di legge e vizio di motivazione. La censura riguarda, in particolare, la comparazione tra trattamento comune e trattamento differenziato. Si rappresenta, infatti, che anche al detenuto del circuito comune non è consentito utilizzare nella propria camera di pernottamento i materiali per la pittura artistica. L’attività di pittura, per tutti i detenuti, può svolgersi solo in appositi ambienti all’uopo destinati», come da «pertinenti disposizioni regolamentari». Ebbene, il ricorso è stato dichiarato fondato per le seguenti ragioni: «la decisione emessa dal Tribunale tende a fondarsi sul diritto alla non discriminazione, tranne l’esistenza di ragioni di sicurezza idonee a determinarla tra i detenuti comuni e quelli sottoposti al regime differenziato»; ma va tuttavia rilevato che nel caso in esame le obiezioni introdotte dall’Amministrazione sono fondate in quanto è stato «dimostrato che le modalità di fruizione individuale dell’attività di pittura non sono diverse rispetto a quelle del circuito ordinario». Sicché, tale assunto «rende insussistente la base logico-giuridica (pretesa discriminazione, non fondata su obiettive esigenze di sicurezza) su cui si basa la decisione impugnata, decisione che - per il resto - non ha postulato l’esistenza di un diritto soggettivo alla espressione artistica di tale portata da escludere l’esistenza di modalità di conformazione del diritto medesimo. Dette modalità di conformazione sono dunque da ritenersi legittime perché non intaccano il nucleo essenziale del diritto a coltivare tendenze espressive (componente del diritto al mantenimento della dignità in condizione detentiva), che resta riconosciuto». Ne consegue perciò l’annullamento senza rinvio del provvedimento (Cassazione penale, maggio-settembre 2024).