In tema di ricorso contro la sanzione disciplinare, nel caso in esame il Tribunale di sorveglianza ha respinto il reclamo presentato dal condannato contro l’ordinanza del magistrato di sorveglianza che a sua volta aveva respinto il reclamo proposto dallo stesso istante contro la sanzione disciplinare della esclusione dalle attività comuni per aver rivolto una espressione irrispettosa verso un agente di polizia penitenziaria. Ebbene, premesso che il detenuto si è difeso sostenendo di non aver pronunciato la frase irrispettosa contestata, bensì una frase simile che però «aveva la profonda differenza di rivelarsi una mera esclamazione di stizza rivolta a se stesso, e non all’agente di polizia penitenziaria», tuttavia l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza ha evidenziato l’esistenza di un «rapporto dell’agente di polizia penitenziaria in cui si riporta la frase censurata, ed ha affermato che tale rapporto, provenendo da pubblico ufficiale, fa prova fino a querela di falso». Atto, quello di querela per falso, a dire del condannato presentato alla Procura della Repubblica competente per territorio di cui ne chiedeva l’acquisizione. Sicché, scrivono i giudici di legittimità, «la querela di falso è uno strumento tecnico giuridico e non può essere surrogato tal fine dalla presentazione di una denuncia querela in sede penale, che ha finalità diverse». Infatti, «il giudizio civile di falso e il procedimento penale di falso, pur conducendo entrambi all’eliminazione dell’efficacia rappresentativa del documento risultato falso, si differenziano per la funzione e l’oggetto, in quanto il giudizio civile tende a dimostrare la totale o parziale non rispondenza al vero di un determinato documento nel suo contenuto obiettivo o nella sua sottoscrizione e non, come quello penale, a identificare l’autore della falsificazione, ai fini della applicazione della sanzione penale». Tant’è, se «la falsità di un documento, essendo all’uopo irrilevante il giudicato penale di assoluzione per il reato di falso relativo al medesimo documento», altrettanto «irrilevante diventa, pertanto, anche la questione sull’acquisizione degli atti da cui risulterebbe la ostilità dell’agente di polizia penitenziaria nei confronti del ricorrente». Ne consegue che il ricorso deve dichiararsi infondato con condanna al pagamento delle spese processuali (Corte di Cassazione, I Sez. Pen., Sent. 20258/2024).